Da Ingrao a Ingroia

Dino Angelini

10.1.13

La sinistra radicale attuale in un certo qual modo è figlia della sinistra radicale emersa in Italia intorno al ’68: quella che allora si chiamava “sinistra extraparlamentare”, nata all’interno delle lotte anti-istiuzionali e anti-capitalistiche che partirono nelle università, nelle scuole e, subito dopo, nelle fabbriche, influenzata dal pensiero di avanguardie intellettuali, spesso esterne al Pci, ma presenti anche al suo interno, come il gruppo del Manifesto e la corrente ingraiana.

I luoghi all’interno dei quali allora nacque il pensiero critico che innervò poi l’azione politica e la lotta anti-istituzionale furono le riviste: Quaderni Rossi, innanzitutto, e poi Quaderni Piacentini, Falcemartello, Nuovo Impegno, Giovane critica, il Manifesto-Rivista, per citare quelli con più chiari e preponderanti interessi politici; poi un grande numero di riviste con interessi più culturali, un consistente gruppo di riviste dei cosiddetti cattolici del dissenso, eccetera. Anche i libri che più incisero sul movimento venivano – per così dire – lanciati da queste riviste: Lettera ad una professoressa, L’uomo ad una dimensione, Asylums, etc; così come i classici del marxismo e i grandi pensatori eterodossi, riattraversati e riportati in vita in questi luoghi, da questi intellettuali.

Sia il movimento studentesco del ’68 che il movimento operaio e sindacale del ’69 erano impregnati di idee che derivavano da questa semina; idee che poi cercavano più o meno creativamente di tradurre in azione politica.

A un certo punto, però, ci fu come una divaricazione, coperta da quella più eclatante derivante dal terrorismo. Divaricazione alla quale spesso non si da molta attenzione: quella che vide da una parte il solidificarsi dei movimenti nei partiti (o, per meglio dire, nei partitini), dall’altra l’inizio di quella lunga marcia attraverso le istituzioni che caratterizzò l’azione quotidiana della gran parte degli ex-militanti del “movimento”, ben presto usciti da queste organizzazioni destinate a burocratizzarsi.

Qualcosa di simile penso sia avvenuto parallelamente all’interno del movimento femminista, che non si burocratizzò, ma – da quel che mi risulta – si trasformò in un pensatoio prevalentemente autocentrato, perdendo per strada molte ex-militanti che poi diventarono il nerbo femminile della lunga marcia: si pensi alla femminizzazione della docenza e a ciò che questo fenomeno ha significato per la scuola italiana.

In questo modo il ’68 ha operato come un fiume carsico nella società italiana, contribuendo a modificarla in ogni suo comparto.

Ciò che sta accadendo oggi è qualcosa di simile: a partire da Genova i grandi movimenti per i beni comuni, per i diritti, per la scuola pubblica, per l’ambiente, per la lotta contro il neoliberismo (che invece impregna ormai sia il centrodestra sia il centrosinistra), la lotta di No Tav, No Dal Molin, così come l’azione apparentemente isolata della Fiom, etc., tutti questi movimenti rappresentano gli avamposti di una nuova sinistra radicale, che si sta confrontando con dei nuovi intellettuali, e anche con rappresentanti meno giovani di un pensiero critico, che per un lungo periodo non ha cessato di esistere, ma che nella seconda repubblica era stato messo ai margini dalla cultura dominante.

La differenza fondamentale fra ieri e oggi è che ieri ci trovavamo in una società che guardava con ottimismo al proprio futuro; mentre oggi siamo all’interno di una crisi di sistema finora gestita – almeno in Europa – proprio da coloro che l’hanno creata, praticamente per svendere alla finanza internazionale le conquiste della seconda età del 900.

Cosicché – mentre ieri la lunga marcia attraverso le istituzioni, ma anche attraverso le fabbriche e gli altri luoghi strategici della società, ha potuto partecipare alla trasformazione di una società che, sia pure fra mille contraddizioni, era disposta a sopportare le voci dissonanti – oggi ciò risulta molto più difficile perché la radicalità reazionaria e lo spirito distruttivo che impregna l’opzione neoliberista non ammettono vie di mezzo, ma anzi (come ha dimostrato Marchionne) tendono a eliminare la contraddizione eliminando gli interlocutori scomodi.

Quando dico “distruttivo” voglio dire eliminazione del welfare, delle tutele, dei diritti e, soprattutto, della democrazia. Quando, invece, le forze della nuova sinistra tendono ad allargarla, ad aprirla alla partecipazione di una cittadinanza che si vuole sempre più attiva e capace di auto-organizzarsi per decidere del proprio futuro.

All’interno di questo processo le elezioni rappresentano una tappa. Che non sarebbe neanche la più importante se in Italia senza Ingroia non ci fosse il pericolo di avere nel prossimo parlamento un’assenza importante, capace di riportare anche lì il nuovo seme che questo movimento può piantare nella società che verrà. Una tappa che, sotto molti punti di vista, può diventare una strozzatura che, invece di unire, separa e dilacera questo tessuto ancora non definitivamente imbastito. Vedremo se – come è accaduto quarant’anni fa – la nuova generazione sarà capace, usando anche Ingroia e la sua rivoluzione civile, di fare la propria lunga marcia.

Potrebbero interessarti anche...